Ambrogio Luddi Priore del Convento di S.Marco (FI) nel 1875

Uno sguardo nell’anima di Mons.Pio A. Del Corona

(Ambrogio Luddi)


Si chiamavano tutti e due allo stesso modo, e il nome non stonava addosso né all’uno né all’altro.

Il Pontefice domandò una volta del Vescovo con premura speciale, come di uno che si vuol tenere sott’occhio da noi, per esser sicuri che non vada sciupato: “E Del Corona che fa? Tenetene di conto sapete! Quello è un santo!” [1].

In bocca a San Pio X queste parole non erano complimento; il Papa pensava davvero che il decano dei Vescovi Toscani [2], bianco nel vestito, bianco nei capelli e più che mai bianco nell’anima, era un santo.
Appena fatto Papa, in tre o quattro mesi, se l’era visto davanti due volte [3] e l’aveva imparato a conoscere quanto basta a un’anima perfetta per entrare nell’intimo di un’anima gemella.

Perché mi pare che si possa andar più in là del semplice accostamento del nome e delle relazioni; mi pare che ci sia tra di loro una somiglianza di pensieri, una sete della stessa acqua, un lavoro sul medesimo terreno del cuore, un abbraccio a due croci con la medesima stretta intensificata fino all’ultimo giorno.
Credo che il Papa con accanto Mons. Pio non ci perderebbe niente.

Badate però, io parlo della vita interiore: Del Corona rimarrà sempre Vescovo di San Miniato e Pio X il grande Pontefice della Chiesa universale.

Ma quello che conta nella vita e nella morte è il dentro.

E il di dentro di Mons. Pio fu quello di un santo; e più su di un santo in terra non c’è nessuno.




Pio X


Pio X non era stato solo ad accorgersi che anima reggeva quel povero corpo logorato dalle fatiche e dagli anni.

Se n’erano accorti tanti e tanti anni avanti i popolani del Samminiatese che gli correvano dietro nelle visite pastorali e gli urlavano a tutto fiato i loro evviva.

E l’esaltazione della sua vita sacrificata acquistava sulle bocche dei contadini e degli operai il valore di una consacrazione.

Se gli uomini, dopo aver aspettato inutilmente fino a mezzanotte il loro turno al confessionale, invece di andarsene a casa si sdraiavano fuori al lume di luna e dicevano: “Così domattina appena viene lo potremo agguantare!”, vuol dire che avevano trovato in lui qualcosa di più del sacerdote che tutti i giorni confessa.


Anche per lui le buone massaie dicevano: “Benedetta la mamma che l’ha fatto!” [4].

E il ricordo del fatto evangelico illuminava la figura del Vescovo della luce di Gesù.
A Gesù difatti voleva rassomigliare.

Già nei primi anni di vita pastorale, scrivendo a un’anima buona, aveva parlato di un desiderio di martirio e di pianto, di dolori fisici e più che altro morali da soffrire, di un coltello che lo sacrificasse sull’altare di Dio e lo rendesse meno indegno del Cristo: “Non mi faccia Gesù indegno di sé; e se devo essere qualche volta desolato fino alla morte, mi faccia invincibile al di là della morte”. E in quegli stessi anni aveva scritto: “Mi affatico per farmi santo”.


Ma non aveva incominciato allora.

Nel 1870 scriveva: “Sono quindici anni che il dolore mi tocca e l’amore della Croce e del Sangue che adoro lo hanno talora sopito, ma io son certo che la potenza del dolore mi deve disfare prima di giungere a Dio”.

Ritornando indietro di quindici anni noi troviamo proprio il primo anno della sua nuova vita, quello dell’entrata in San Marco, della Vestizione e del Noviziato [5].

Allora egli aveva cominciato a lavorarsi e a bere al calice della sofferenza che purifica.


Intanto in quei primi anni gli era morto il babbo (nel 1856); la mamma l’aveva persa da piccino (nel 1839): Dio lo distaccava dalla terra.

La vita che aveva abbracciato la prese subito sul serio e la visse tutta, perfezionandosi un po’ tutti i giorni: fu un frate santo.
Sapeva prendere e dare buoni esempi anche ai più vecchi.

Per le anime si affaticava più di un babbo per i suoi figlioli.

Si era preparato all’apostolato con lunghi studi sui libri e nel fondo del cuore, ed era diventato davvero un assetato del bene degli altri.

Ma non si faceva troppo avanti; l’umiltà fu sempre una delle sue virtù più care; non per nulla scriverà più tardi, all’annunzio della elevazione alla dignità di Vescovo “Obbedire sempre!... Era il mio ideale”.



Questo è l'affresco dipinto dal Beato Angelico nella cella n°6 del Convento di S.Marco (FI).
In questa cella il giovane Padre Pio Alberto Del Corona ha vissuto gli anni prima della sua ordinazione episcopale.
Gli anni che passò in convento dopo l’ordinazione sacerdotale – una quindicina – segnano la parte esteriormente più calma della sua vita; gli si poteva dire davvero, prendendo le parole in un significato anche più largo, quello che gli aveva detto uno straniero venuto a visitare nella sua cella l'affresco della Trasfigurazione [6]del Beato Angelico: “Voi stare qui ? Voi essere in Paradiso”.

Il più del tempo lo passava nel suo paradiso, almeno i primi anni; ma poi vennero le predicazioni, le scuole, la direzione spirituale, e allora l’anima ripiena di Dio si riversò al di fuori sui fratelli indigenti, gioiosamente.

Fu questo uno dei lati belli della sua vita e forse il più simpatico: il sorriso gli si levò poche volte di sulle labbra, con tutti trattò sempre dolcemente, sparse intorno a sé la gioia.
Eppure dirà un giorno, e pensava certo fin da allora: “La potenza del dolore mi deve disfare prima di giungere a Dio”.
Patire e non far vedere agli altri che si patisce; sono tanto ma tanto pochi quelli che arrivano a questo.


Mons. Pio se n’era fatta una seconda natura.

Aveva incominciato con l’accettazione di tutte le austerità della vita religiosa, s’era poi entusiasmato del dolore, ne aveva fatto un ideale di vita, il suo ideale di vita.
La santificazione attraverso la via del dolore è uno dei motivi che ricorrono più spesso nelle lettere scritte da San Miniato all’Asilo. Alle figlie di quel caro Convento che Lui aveva raccolto e dirigeva e amava da padre, scriveva tutte le settimane una lettera d’istruzione, anche nel colmo del lavoro per le visite pastorali.
E, nel cuore delle figlie riversava un po’ del suo cuore, e con i fervori e le gioie anche gli affanni trovavano la via d’uscita e lasciavano intravedere e facevano sentire un po’ del calore che bruciava la sua anima e la purificava.

Se queste lettere fossero più conosciute Mons. Pio diventerebbe per tutti quello che fu sempre in faccia a Dio e a quei privilegiati che lo conobbero da vicino: un’anima santa, santificata dal dolore.
Non meravigli l’insistenza; il dolore è l’anima della sua vita: senza il dolore Mons. Pio non sarebbe lui.
Sentite come ci porta egli stesso a questo pensiero: “In che cosa consiste la vita?
In rimembranze dolorose del passato e timide speranze dell’avvenire.
Non possiamo più guardare la culla e abbiamo dinanzi la tomba.

In tutto questo cumolo di visioni affannose e di lotte terribili splende come faro la Croce, e dalla Croce l’Amore per essenza ci chiama e c’invita a piangere. Senza l’acqua non fiorisce la terra, né l’anima senza lacrime.
Nel battesimo delle lacrime l’anima si rigenera, intende tutto, spera tutto da chi morì per non condannarla”.

E come parlava così faceva.
Di lacrime inondò la sua vita di pastore di anime: lacrime per i contrasti che gli venivano dalla situazione particolare in cui si trovava come Vescovo, (un altro Vescovo, esautorato dalla Chiesa, ma tenuto su dal Governo italiano, tenne per ventiquattro anni il palazzo episcopale e le rendite che dovevano dar da vivere a lui), lacrime per le incomprensioni e le ingiurie di qualche sciagurato sacerdote; lacrime sulla rovina delle anime; lacrime sulla disgrazia dei peccatori; lacrime sui dolori del Cristo e l’ingratitudine degli uomini; lacrime per le sventure della patria; lacrime per sé e per i sacrifici dei fratelli scacciati fuori dei conventi dalla rabbia dei persecutori [7]; lacrime di compassione, lacrime di angoscia sulle tombe dei parenti e di amici; umili lacrime sopra sé stesso per purificarsi, calde affettuose lacrime paterne per purificare gli altri.

S.Miniato, la chiesa dei Santi Jacopo e Lucia, annessa al Convento domenicano; qui ha vissuto Mons.Pio nome Vescovo coadiutore, mentre il Vescovo titolare, A.Barabesi, di fatto esautorato dalla Chiesa, rimaneva fino alla morte nella residenza episcopale

 

“Bisogna piangere per far piangere”, diceva e voleva significare che prima, il dolore ci deve avere levato su dalla terra e santificato, se vogliamo scuotere la terra d’addosso ai peccatori e santificarli.
E lui non s’era sacrificato e non lavorava a santificarsi per sé stesso: le anime da salvare stavano in cima ai suoi pensieri.

I trent’anni che passò Vescovo a San Miniato sono trent’anni di vita missionaria: ogni autunno faceva la visita pastorale nelle campagne, predicava, confessava, ascoltava confidenze, metteva in pace gli animi.
Anche quando rimproverava lo faceva in una maniera tutta speciale: un povero sacerdote era stato richiamato all’ordine, ma così per benino, con tanta bontà, che da quel giorno non ricadde più e chiamava il suo Vescovo “l’Angelo del conforto”.
Gli era costato sempre far pesare sugli altri la mano dell’autorità: nel 1874, eletto priore del Convento di San Marco, aveva invitato i confratelli ad una collaborazione amorosa, e aveva espresso tutto il suo dolore per essere stato messo a un posto di comando, lui che avrebbe voluto sempre obbedire.
Non aveva mai sognato altro al di sopra della sua cella e dei suoi libri.
Quando fu eletto Vescovo fece di tutto per sottrarsi; e perché vide tutto inutile e riconobbe la volontà di Dio, abbracciò rassegnato la grossa croce che il Signore gli mandava e la portò sempre, col martirio nel cuore e il sorriso sulle labbra, fin all’ultimo giorno.

Per trent’anni sospirerà il ritorno alla sua cella di frate, per trent’anni soffrirà lontano dal suo nido, in esilio.

“La vita – scriverà – è un oggi di Calvario”.
Ed egli la vivrà intera la sua giornata di passione, nel nascondimento e nel mistero del cuore, e soltanto quando il calice sarà alla feccia, gli saranno aperte le porte del cielo.

Egli aspettò quel momento nell’operosità feconda, nell’umiltà, nel pianto.

L’amore per le anime lo portava a prodigarsi in mille modi; e dal suo zelo non era esclusa la donazione del più necessario; la sua carità non conosceva limiti: come quando si tolse le fibbie d’argento per darle a un povero, o come quando si levò addirittura le scarpe e ritornò a casa a piedi scalzi perché un pover’uomo finisse di patire il freddo.
L’umiltà lo portava al popolo: non sdegnò una volta, alla stazione di San Miniato mentre aspettava il treno, di mettersi a fare la ninnananna a un bambino che aveva trovato solo nella culla, in una casa di contadini.
Poco dopo la mamma era tornata con una bella grembiata di uova fresche e di verdura, cantarellando; e al vedere il Vescovo curvo sul bimbo e premuroso come un babbo, fu tanto commossa che le cascarono le cocche del grembiale e le uova si spiaccicarono tutte per terra. Il Vescovo la consolò, le dette di che ricomprare le uova e la salutò sorridendo dopo aver riguardato affettuosamente il bambino.
Ma questi son fatti che si possono anche spiegare con una certa innata gentilezza d’animo; quello che più di tutto ci dice la sua umiltà è il basso sentimento che aveva di sé, e il poco conto in cui si teneva davanti a Dio e davanti agli uomini.

Metteva in pratica quanto aveva scritto alle figlie dell’Asilo: “L’umiltà sta tutta nel conoscerci vili, nel trattarci con disprezzo, nel pigliare l’ultimo posto di cuore, nel volere che altri ci conosca abbietti, ci dia l’ultimo posto, nel tacere né dolerci mai quando qualcuno ci sprezza, ci dimentica e oltraggia”.

E quanto stimasse questa virtù l’aveva fatto vedere un’altra volta scrivendo: “Un dramma d’umiltà val più che mille rivelazioni e mille estasi”.
E perché la praticasse l’aveva detto nella stessa lettera: “Dall’umiltà nasce l’amore, e l’amore copre la moltitudine dei peccati” [8].
Questi peccati erano i suoi: le piccole fragilità, gli abbandoni qualche volta melanconici, le colpe che gli sembrava d’avere e che gli facevano credere di non essere all’altezza del suo ufficio.

Ma erano soprattutto i peccati degli altri che egli voleva espiare, che aveva sete di espiare come vittima della giustizia e dell’amore di Dio.

Due strumenti di penitenza usati da Mons.Pio: il cilicio (o, più propriamente, una catena di ferro)
portato come cintura sulla viva carne; il flagello usato per frustarsi


E sempre per espiazione bramava i patimenti: all’Asilo si conserva ancora il cilizio che portava addosso; qualche volta lui stesso ci parla di flagellazioni corporali, ma quello che lo avvicinava di più a Gesù Crocifisso era il martirio del cuore, il pianto di compassione per le anime. “Tant’è – scriveva – bisogna fremere, piangere, e aspettare piangendo il cielo. Beato chi si reputa onorato di portare la Croce con Gesù Cristo”. “La carne è fiacca e nel dolore si dissolve, ma l’anima nel fuoco del dolore e dell’amore si ritempra e si rinnovella”.

Con tali pensieri animava la sua vita.

E non rimanevano pensieri: la sete era sete reale, patire pativa davvero.
E quando scriveva “la santità è un’agonia e un sudore di sangue”, non dipingeva un’idea, ma la sua vita, la sua santità. Come già un’altra volta aveva fatto parlando della potenza santificatrice del dolore: “Basta che il dolore tocchi un’anima ed eccone uscire le grandi scintille, gli affetti puri, le ricchezze occulte e ineffabili, che la prosperità continua avrebbe coperte e che il dolore rivela”.
Non per nulla e certissimamente, non per posa retorica gridava a sé stesso: “Anima mia, non adirarti col dolore, non disdegnarlo, è il bacio di sangue che dà a te lo Sposo divino per innamorarti”.
E quello che egli voleva era il dolore puro, lo strazio dell’anima: “Troppo divine sono le lacrime! Mi pare un dissacrarle il versarle, quando pur le avessi, per l’infortunio del tempo”.
E sempre le versò purissime.
Una volta ai Bagni di Casciana [9]si presentò un omaccione per confessarsi, e il Vescovo lo ricevé subito come un figliolo nonostante le paure del frate che l’accompagnava.
Dopo qualche minuto uscirono tutti e due con gli occhi rossi, e al curato che gli domandava come avesse fatto tanto presto a confessare un uomo di quella fatta, rispose: “Lui ha pianto, io ho pianto, il battesimo era bell’e fatto”.
Quante altre volte avrà ribattezzate le anime con l’acqua delle sue lacrime?
Verso la fine il Signore volle da lui anche i patimenti del corpo: un cancro [10]lo tormentò gli ultimi cinque anni di vita e lo condusse alla tomba.

Ripeté certo a sé stesso in quel tempo: “Io sono fermo a credere che la croce sarà il mio vessillo e i dolori la mia corona”.


Veduta del Convento di S.Domenico di Fiesole agli inizi del ‘900

Lasciò la diocesi, e si ritirò nel Convento di San Domenico di Fiesole che aveva amato con amore di predilezione, perché era stato di Sant’Antonino e perché c’erano i giovani.
Amava i giovani; si sentiva di rassomigliare a loro nella giovinezza del cuore. Ora che si avvicinava alla tomba gli ultimi bagliori della sua fiamma dovevano esser per loro, per illuminarli e tracciare la via.
Ritornò alla vita di un tempo, rivisse nel venerando prelato il frate di San Marco che stava nel suo nuovo paradiso, e lavorava e pregava in silenzio.
Ora non c’erano le scuole, ma dal suo posto in coro dava lezione di sacrificio, di fervore, di amore di Dio.
Quasi cieco [11] e torturato dal male che lo consumava, era sempre il primo nella Casa del Signore.
Faceva da padre a tutti con freschezza di mente e tenerezza di cuore, e intanto aspettava l’ultimo giorno, confidente.

Passeggiando una volta nel boschetto degli allori, si fermò davanti a un arancio e s’accorse allora che gli aranci portano spine.
Non mancò la riflessione in una lettera all’Asilo: “Vedete il mistero: il verde delle foglie in inverno, la soavità del colore e del sapore nel frutto e le spine aspre trafiggenti. Sono i doni che Dio ci fa nell’esilio, il soave e l’aspro, per educarci all’amore e prepararci ai doni del cielo”.

E ai doni del cielo era ormai pront, il male rincrudì; si fece portare all’Asilo per morire in casa sua.
“Direte a Tonino – aveva scritto quando si murava l’Asilo – che faccia sotto la Chiesa un sepolcro”, sotto la Chiesa c’era la cripta [12], e il sepolcro si aprì più tardi per lui.
In quegli ultimi giorni poteva dire a sé stesso quanto aveva detto alle figlie: “Guardate il cielo e dite: voglio che l’anima mia sia più serena di te”.
Attese la morte, nei pochi giorni che stette proprio male, come una sorella che viene a portarci la gioia e la vita, era lui che consolava chi andava a trovarlo con l’anima in tumulto al pensiero di perderlo.
“La primavera dell’anima non comincia in Marzo e Aprile. Perenne è la primavera dell’anima, ove perenne alita il bacio di Dio, e splende il suo volto”.
Tale era l’anima sua; Dio la possedeva, la inondava lo Spirito Santo della fiamma d’amore: “Noi crediamo all’Amore, inneggiamo all’Amore, prendiamo con gioia quel che Dio ci manda e moriamo d’amore”.

Così, levato su da terra per le braccia della Mamma che saliva al Cielo [la Madonna Assunta], volò via per Santa Maria di mezzagosto dell’anno millenovecentododici, dopo settantacinque anni d’amore.


Convento di S.Domenico di Fiesole, 1929: al centro i due vescovi domenicani Ambrogio Luddi, autore di questo profilo spirituale,
e Lodovico Ferretti, principale biografo di Mons.Pio

NOTE

[1]“Ed io ben ricordo che quando il Vescovo [Mons. Pio] era già presso di noi a San Domenico [di Fiesole], avendo io occasione di recarmi ai piedi del Santo Padre, egli stesso per la prima cosa mi domandava di lui: E Del Corona che fa? Tenetene di conto, sapete! quello è un santo!” (Lodovico Ferretti, Vita di Mons. Pio Alberto Del Corona dell’Ordine dei Predicatori della Congregazione di San Marco a Firenze, Arcivescovo di Sardica, Roma, Industria Tipografica Romana dell’Opera Cardinal Ferrari, imprimatur 1927, pag. 377).

[2] Il decano, cioè il più anziano fra i Vescovi della Toscana.

[3] Nell’aprile del 1904 guidando una comitiva di pellegrini della sua e di altre diocesi, e nel dicembre seguente in occasione della visita ad limina.
La visita ad limina (ad limina apostolorum, presso le tombe degli apostoli Pietro e Paolo) è la visita che periodicamente i vescovi di tutto il mondo fanno in Vaticano per illustrare al Pontefice quale sia la situazione della loro Regione ecclesiastica (diocesi). Ai tempi di Mons. Pio la cadenza era triennale, dopo il 1909 è diventata quinquennale.

[4] Questa frase in bocca alle popolane ci ricorda frasi simili rivolte alla Madonna e a Gesù, cui Mons. Pio si sforzava di assomigliare: ‘ed [Elisabetta] esclamò a gran voce: «Benedetta tu [Maria] fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Luca 1,42); ‘Mentre diceva questo, una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!»' (Luca 11,27).

[5]Il giovane Alberto partì da casa sua il 4 dicembre 1854 e ricevette l’abito

[6] Dopo l’ordinazione sacerdotale al Padre Pio Alberto venne assegnata la cella in cui il Beato Angelico aveva dipinto la Trasfigurazione, che si trova al primo piano, nella sesta stanza a sinistra (da nord) del primo corridoio (quello che si incontra proseguendo a dritto dopo le scale).

[7] Dall’epoca napoleonica in poi e per tutto l’Ottocento ci sono state in Italia, sotto il pretesto di princìpi nobili, varie leggi persecutorie contro la Chiesa e particolarmente contro gli Ordini religiosi. Dopo l’unità d’Italia sono due le leggi che hanno gravi ripercussioni: la legge 7 luglio 1866 di soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose, la legge 15 agosto 1867 per la liquidazione dell’Asse ecclesiastico. Lo Stato italiano tolse il riconoscimento di ente morale a tutti gli ordini, corporazioni, congregazioni di carattere ecclesiastico, di modo che il demanio dello Stato poté acquisire tutti i beni ecclesiastici; in mancanza di forme di tutela dei fabbricati monastici molti beni artistici andarono dispersi. Nel caso particolare di San Marco il Governo limitò al minimo i frati e gli spazi a loro concessi: tre frati per la parrocchia e altrettanti per la custodia dell’ex-convento diventato museo; gli altri frati furono cacciati e costretti a trovare ospitalità in case private.

[8] Cfr.: ‘Soprattutto conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati’ (1Pietro 4,8); ‘L’odio suscita litigi,/ l’amore ricopre ogni colpa’ (Proverbi 10,12).

[9] Bagni di Casciana nel 1956 ha mutato il nome in Casciana Terme, località termale in provincia di Pisa.

[10]Angiocolite o colangite: infiammazione dei dotti biliari; può essere ascendente acuta o sclerosante. In quella acuta, di solito di natura batterica (spesso accompagnata da ostruzione del dotto da parte di un calcolo biliare, di un tumore, di parassiti), il processo infettivo risale verso il fegato, e può coinvolgerlo; si manifesta con febbre, dolori addominali e ittero. In quella sclerosante, più rara, il fegato risulta leso dal restringimento delle vie biliari.

[11] Cecità dovuta alla cataratta ad entrambi gli occhi. La cataratta è un processo di progressiva perdita di trasparenza del cristallino; tale processo dipende da un fenomeno biochimico che si verifica con l’aumentare dell’età (o anche per altre cause come il diabete, infiammazioni, ecc.).

[12] La cripta rimase vuota e disadorna fino a quando fu possibile traslarvi la salma di Mons. Pio, e cioè nel 1925.